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Diritto del lavoro

Qualche chiarimento in merito alla direttiva europea sul salario minimo

Come è noto, in data 7 giugno 2022, i negoziatori della presidenza del Consiglio e del Parlamento europeo hanno raggiunto un accordo politico provvisorio sul progetto di direttiva relativa a salari minimi adeguati nell’UE.

La nuova normativa promuoverà l’adeguatezza dei salari minimi legali e contribuirà in tal modo a garantire condizioni di vita e di lavoro dignitose per i lavoratori europei.

È necessario tuttavia dare qualche chiarimento sul salario minimo.

Perché se si parte dall’assunto che il trattato sul funzionamento dell’Unione europea non conferisce all’UE competenze in materia di salari, è facile capire che la direttiva non introduce (nel senso che non può farlo) alcun minimo retributivo. La direttiva mira infatti a promuovere la contrattazione collettiva sui salari di tutti gli Stati membri, fissando come obiettivo da raggiungere una copertura dei contratti collettivi pari almeno all’80% dei lavoratori salariati.

Solamente gli Stati membri con una copertura della contrattazione collettiva inferiore all’80% dei lavoratori salariati saranno dunque interessati dalla direttiva e l’Italia è già un Paese conforme a questo obiettivo.

Ma dunque, se l’Italia è già conforme alla direttiva, perché il tema del salario minimo è così importante?

Innanzitutto perché effettivamente l’Italia è uno dei pochi Paesi dell’UE a non avere una legge sul salario minimo.

In secondo luogo perché in Italia il trattamento economico minimo è sempre stato quello individuato dalla contrattazione collettiva nazionale e sono circa 866 i contratti collettivi nazionali attualmente depositati presso il CNEL.

Quando si parla di salario minimo uno dei problemi risiede nella selezione del contratto collettivo da utilizzare come parametro di riferimento per una “una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del […]  lavoro” (art. 36 Cost.).

Ed infatti è proprio in questa direzione che si muovevano (seppur con differenti impostazioni) le proposte italiane in materia.

Il DDL Catalfo, ad esempio, prevedeva (in estrema sintesi) che in presenza di una pluralità di contratti collettivi applicabili, il trattamento economico complessivo non avrebbe dovuto essere inferiore a quello previsto per la prestazione di lavoro dedotta in obbligazione dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria stessa, e in ogni caso non inferiore all’importo di 9 euro lordi.

Il DDL Delrio, invece, prevedeva il minimo di 9 euro netti, derogabile da parte di contratti collettivi firmati da soggetti sindacali rappresentativi.

Il tema del salario minimo è dunque una questione molto delicata, perché non incide solamente sulla libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.), ma anche sulla libertà di organizzazione sindacale (art. 39 Cost.).

Magari la direttiva non riuscirà a risolvere i problemi suesposti, ma quantomeno riaccende il dibattito e per questo motivo non può che ritenersi apprezzabile. E qualche chiarimento sul tema del salario minimo si rendeva necessario.

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