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Diritto del lavoro

Licenziamento per g.m.o. da COVID-19

Sta circolando in queste ore la bozza di una nuova decretazione d’urgenza che modificherebbe in modo significativo l’art. 46 del Decreto Cura Italia in materia di licenziamenti:
«a) al comma 1, le parole: “60 giorni” sono sostituite dalle seguenti: “cinque mesi” ed è aggiunto infine il seguente periodo: “Sono altresì sospese le procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in corso di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604.”.
b) dopo il comma 1, è aggiunto infine il seguente comma: “1-bis. Il datore di lavoro che, indipendentemente dal numero dei dipendenti, nel periodo dal 23 febbraio 2020 al 17 marzo 2020 abbia proceduto al recesso del contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, può, in deroga alle previsioni di cui all’articolo 18, comma 10, della legge 20 maggio 1970, n. 300, revocare in ogni tempo il recesso purché contestualmente faccia richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale in deroga, di cui all’articolo 22, dalla data in cui abbia avuto efficacia il licenziamento. In tal caso, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro.”.»

Il nuovo art. 46, tenendo conto delle modifiche apportate in sede di conversione dalla L. n. 27/2020, diventerebbe così:
«Disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo»
1. A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24,  della  legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso  per  cinque mesi  e  nel  medesimo periodo sono sospese le procedure  pendenti  avviate  successivamente alla data del 23 febbraio  2020.  Sino  alla  scadenza  del  suddetto termine, il  datore  di  lavoro,  indipendentemente  dal  numero  dei dipendenti, non può recedere dal contratto per  giustificato  motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15  luglio  1966,  n. 604. Sono altresì sospese le procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in corso di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604.
1-bis. Il datore di lavoro che, indipendentemente dal numero dei dipendenti, nel periodo dal 23 febbraio 2020 al 17 marzo 2020 abbia proceduto al recesso del contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, può, in deroga alle previsioni di cui all’articolo 18, comma 10, della legge 20 maggio 1970, n. 300, revocare in ogni tempo il recesso purché contestualmente faccia richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale in deroga, di cui all’articolo 22, dalla data in cui abbia avuto efficacia il licenziamento. In tal caso, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro.

Il significato della prima modifica è chiaro: il termine originariamente previsto di 60 giorni viene prolungato di altri 3 mesi, per un totale di 5 mesi.

Si potrebbe invece ragionare sul significato da attribuire alla seconda modifica.
In anticipo sul pensiero di un mio caro amico che riconduce alla violazione dell’art. 46 l’inefficacia del recesso, si potrebbe pensare che il nuovo periodo non sia altro che una precisazione del precedente periodo, avendo questa volta il legislatore usato espressamente il verbo “sospendere”. Il che a riprova della «sospensione degli effetti dei recessi come conseguenza della disposizione e non la nullità per contrarietà a norma imperativa».
Questo ragionamento avrebbe un senso logico che sicuramente non può essere escluso aprioristicamente, ma l’inefficacia del recesso come conseguenza dell’art. 46 continua ancora a non persuadermi e, a dire il vero, nemmeno vedo tutta questa consequenzialità tra i due periodi.
Ritengo anzi che il nuovo periodo persegua semplicemente la finalità di garantire forme di tutela speciale per una platea più ampia  di lavoratori colpiti dal COVID-19, confermando indirettamente la nullità del recesso in violazione dell’art. 46 così come originariamente formulato.
Se fosse stata un’esplicazione consequenziale del precedente periodo, la nuova modifica non riporterebbe l’ avverbio «altresì», ma una congiunzione conclusiva «perciò, quindi, dunque, ebbene, pertanto, allora».E poiché l’avverbio «altresì» viene in questo caso usato come congiunzione coordinante aggiuntiva, è necessario chiedersi cosa il legislatore voglia sommare di nuovo al precedente periodo.
Si potrebbe a prima vista pensare che la seconda modifica voglia semplicemente aggiungere la sospensione delle procedure per g.m.o. avviate dopo l’entrata in vigore del Decreto Cura Italia.
La norma, così come originariamente formulata, vietava infatti “solo” di «recedere dal contratto» per g.m.o., ma non di comunicare l’intenzione, condizione prevista dall’art.7, L. n.604/1966 per le imprese a cui si applica l’art. 18 S.L. (questo problema ovviamente non si pone per gli assunti dopo il Jobs Act).
Ma in  questi casi l’intenzione di recedere per g.m.o. non determina automaticamente il recesso dal contratto.
La norma avrebbe allora – almeno apparentemente – consentito a queste imprese di comunicare l’intenzione del recesso e concludere legittimamente il recesso dopo il 16 maggio.
A mio avviso questo problema non si è mai posto.
Il divieto dell’art. 46 si riferisce infatti al momento dell’efficacia del licenziamento (secondo l’art. 1, co. 41, L. n. 92/2012 il licenziamento produce effetto dal giorno della comunicazione ex art. 7) e non alla data della sua formale intimazione.
Le procedure ex art. 7 già rientravano nella moratoria del Decreto, poiché nel nostro caso gli effetti dell’intimazione formale del recesso per g.m.o. retroagirebbero ad un giorno in cui «il datore di lavoro…non può recedere».
L art 46  tutt’al più sollevava incertezze in merito alla sorte delle procedure avviate e non ancora concluse al 17 marzo 2020.
Con la seconda modifica allora il legislatore intende chiarire proprio la sorte di queste procedure avviate e mai concluse.
Ma sarebbe comunque una vittoria di Pirro per questi lavoratori, poiché non si pongono dubbi in merito alla legittimità del recesso per le comunicazioni ex art. 7 anteriori all’entrata in vigore del Decreto Cura Italia.

A mio avviso tuttavia, alla luce soprattutto dell’ulteriore proroga del termine, la sospensione delle procedure prevista in bozza avrebbe allora come unico fine quello di (provare a) disinnescare il giustificato motivo oggettivo delle comunicazioni con causale COVID-19 inviate prima del 17 marzo 2020.
Non potendo la modifica disporre«che per l’avvenire», la moratoria non può avere «effetto retroattivo», ma l’art. 46 può quantomeno provare ad attenuare gli effetti causati dal Coronavirus.
Il legislatore dunque, nella (remota) speranza di una ripresa, tenta con questa seconda modifica di ricondurre ad ingiustificatezza qualificata le procedure pendenti all’entrata in vigore del Decreto.

Se queste nuove modifiche non avessero come unico obiettivo quello di tutelare il maggior numero di lavoratori possibili, non riuscirei altrimenti a comprendere – come ha detto una persona molto più autorevole di me – quell’ “incentivo al ripensamento” previsto dal nuovo comma 1-bis in merito ai recessi per g.m.o. intimati  «nel periodo dal 23 febbraio 2020 al 17 marzo 2020».

Da tale eterogenesi dei fini non può allora che uscirne confermata la nullità del recesso in violazione dell’art. 46, laddove adesso la norma giunge a contrapporre il verbo “sospendere” per le procedure da g.m.o. avviate prima del 17 marzo, al verbo “precludere” per quelle procedure avviate dopo quella data.

Rimangono comunque alcune domande insolute:
– Chi mai revocherebbe di questi tempi un licenziamento per g.m.o. perfezionatosi prima del 17 marzo 2020?
– Non sarebbe stato invece prioritario inserire la nullità testuale?

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